ROVEGNO: ARPA BIRMANA
LA TESTIMONIANZA GRAZZINI
da FRATRICIDIO! I Caduti della RSI nell'entroterra ligure. A
cura di Pietro Giulio Oddone e Carlo Viale. Editrice NovAntico, 1998.
La Sig.ra Anna Maria Grazzini, figlia del Vice Federale
di Genova Alfredo Grazzini, ha voluto rilasciare una testimonianza, da
noi registrata su cassetta, degli avvenimenti che occorsero a chi, al termine
del conflitto, si mise alla ricerca dei propri familiari che risultavano
o caddero prigionieri delle forze partigiane, le quali amministravano "giustizia"
secondo i canoni di una legge dettata dal rancore politico.
E' questo un significativo esempio degli avvenimenti
che colpirono la popolazione genovese sia durante, che nel dopoguerra,
in riferimento alle dolorose ripercussioni sulle famiglie alla ricerca
continua di notizie sui propri cari caduti in mano partigiana e non più
ritornati.
Queste famiglie trovarono immense difficoltà
nel rintracciare informazioni tese alla ricerca dei propri congiunti e
il più delle volte nei reperimento dei poveri resti.
Una testimonianza significativa viene dalla figlia
dei Vice Federale Grazzini che nei giorni successivi al 25 aprile si dedicò
con tenacia alla ricerca del padre che era stato catturato a Vigevano,
durante il ripiegamento dei proprio reparto verso la Valtellina, ed alla
ricerca del fratello Adelindo Paolo capitano della Brigata Nera di Serravalle
catturato a Garbagna il 14 marzo 1945.
Adelindo Paolo Grazzini fu ferito nei primi scontri
avvenuti nel paese di Garbagna, mentre cercava di discendere, a capo di
un manipolo di uomini, il fiume Grue per aggirare l'accerchiamento partigiano.
Durante il combattimento uno dei suoi uomini cadde ucciso, un altro, si
nascose tra i cespugli di giunco del torrente, e, durante la notte, riuscì
a sganciarsi ed a tornare a Genova, informando dell'accaduto.
Il padre, Vice Federale di Genova, Alfredo Grazzini,
iniziava, con il tramite di un frate cappuccino, una trattativa a distanza
che doveva portare ad uno scambio di prigionieri. Lo scambio dei futuro
Sindaco di Genova Faralli e "due o tre frilli", con la vita dei
figlio. Il frate cappuccino portò una ultima lettera che, tra l'altro,
raccontava, come, il giorno di Pasqua, il l° aprile, Adelindo Paolo
aveva ricevuto il conforto della comunione.
Le trattative comunque non andarono in porto per
l'avvicinarsi dei 25 aprile.
Il 23 aprile il Comandante Grazzini, lasciò
Genova per recarsi in Valtellina, ma veniva catturato dai partigiani a
Vigevano.
La figlia dei Vice Federale, iniziava le ricerche
dei familiari. Il 4 maggio, a Serravalle, riceveva dal comando della div.
Pinan Cichero, una lettera che, sorprendentemente, l'autorizzava a richiedere
il corpo del fratello. Continuava comunque a vivere in lei, la speranza
di ritrovare i propri cari in vita. Notizie ulteriori, le avrebbe comunque
ricevute dal cappellano della divisione Don Gigetto (Sac. Giacomo Sbarboro)
che si trovava all'Hotel Crespi in Genova, in procinto di recarsi a Roma
su richiesta dei propri superiori.
A Genova, all'Hotel Crespi, veniva ricevuta da Don
Gigetto che indossava la divisa partigiana corredata da una croce sul petto
ed un berretto ornato dalla falce ed il martello incrociati.
La Grazzini, chiedeva come potevano conciliarsi
quei due simboli contrastanti tra loro, il cappellano, rispondeva che,
lui, poteva ritenersi un buon sacerdote e un buon comunista. Alla replica
che, il sacerdozio, doveva essere estraneo al credo politico, Don Gigetto
alzava la voce dicendo: “ ... ragazzina, stai attenta perché fai
la stessa fine di tuo fratello" A ciò la Grazzini ebbe la certezza
che il fratello non c'era più. " Allora lo avete ammazzato?"
fu la tragica domanda, le fu risposto, " ... tanto non li troverete
mai, e non saprete mai dove sono, cani come loro non meritavano altra fine".
(Don Gigetto, classe 1902, venne richiamato a Roma e confinato in un monastero
dove, lontano dalla vita pubblica, continuò la sua vita di sacerdote
con il nome di padre Damiano, n.d.r.).
La ricerca della Grazzini, continuò visitando
le fosse comuni di cui man mano si aveva notizia, dalle casermette di Rossiglione
a Torriglia, dove il parroco dell'epoca le consigliò di recarsi
a Rovegno. Colà la settimana del Natale del 1945 il parroco di Rovegno,
le confermò da una foto che il fratello giaceva in una delle fosse
della Colonia "con altri 400 ".
Più tardi riceveva le confidenze di una impiegata
dei Comune di Rovegno, che aveva assistito all'interrogatorio del cap.
Grazzini, e veniva informata che il fratello, spogliato del giaccone di
pelle e degli stivali, era stato depredato anche di un anello da un partigiano,
il cui nome era conosciuto dalla Grazzini perché si trattava di
un amico di infanzia, passato con i partigiani. Questi, incontrato anni
dopo sul tram, alla richiesta di informazioni, scappava a gambe levate
nascondendo alla vista l'anello che ostentava prima al dito.
Nell'aprile dell'anno successivo, forte della concessione
prefettizia che l'autorizzava al recupero delle salme di Roveqno, con l'aiuto
di cinque necrofori messi a disposizione dal Comune e per una settimana,
assieme ad altri familiari dei caduti, fra cui la Sig.ra Gianelli, che
aveva il marito ucciso a Rovegno ed un figlio ucciso a Cravasco, iniziarono
la dolorosa operazione di riconoscimento dei resti.
Il capitano Adelindo Paolo Grazzini, giaceva con
altri 49 in una fossa, con le mani riunite dietro alla schiena ed avvolte
con il filo spinato. Erano stati coperti da pochi centimetri di terra e
ricoperti con sassi. Il corpo ormai scheletrito, indossava due camice,
l'una grigioverde, l’altra nera. Due calzettoni militari di lana bianca
ed allo sterno un fazzoletto piegato che conteneva un orologio, ambedue
riconosciuti essere dei cap. Grazzini. Un particolare macabro di cui non
si conosce assolutamente il motivo, il capitano della Brigata Nera Adelindo
Paolo Grazzini risultava mancante di ambedue i piedi.
Nella ricerca di altre fosse, veniva reperito nelle
vicinanze della Colonia il corpo di un militare di nazionalità russa
incastrato a forza fra due macigni.
Su nessuno dei resti trovati furono reperiti documenti
atti a risalire alla sicura identificazione dei caduti.
Venne il Vescovo di Bobblo a benedire i resti e
pubblicamente, con Don Albino parroco di Rovegno, ringraziò la sig.ra
Anna Maria Grazzini per l'opera intrapresa di dare sepoltura ai caduti.
Venne anche la concessione di un sito nei locale cimitero, a cui si oppose
con veemenza il giornale "Il Partigiano", che accusò il
Comune di voler fare di quei poveri morti degli eroi.
Alla sig.ra Grazzini venne riferito che i prigionieri
erano stati rinchiusi nella torre della Colonia, ove, sui muri si potevano
ancora leggere molte scritte, tra le quali però, non aveva ravvisato
quelle dei fratello. Il dott. Gianelli, figlio e fratello di due caduti
prigionieri nella Colonia, asserisce che essi vennero rinchiusi nella palestra;
invece gente dei paese sostiene che fossero segregati nel locale caldaie
Resta da dire che la quantità di persone
colà prigioniere potevano, nei momento di maggior ressa, dare ragione
a tutte e tre le versioni.
Testimoni oculari riferirono a suo tempo che, dopo
i fatti di Garbagna, i prigionieri vennero condotti a piedi alla Colonia,
e sia il capitano Grazzini che il ten. col. Gianelli, furono caricati di
una croce e costretti a trascinarla lungo tutta la strada, insultati picchiati
e sputacchiati ad ogni sosta dai contadini chiamati dagli aguzzini a quell’opera.
Nel colloquio riportato, Don Gigetto, informava
la sig.ra Grazzini, che i prigionieri della Colonia non erano stati rilasciati,
perché non erano più presentabili. Sino alla data della loro
esecuzione, vennero nutriti con "un pugno di castagne secche al giorno
".
Il Vice Federale di Genova, Com.te Alfredo Grazzini,
dopo alterne vicende che lo videro torturato nella questura di Genova perché
confessasse la partecipazione all'uccisione dei partigiano Severino (Saverino
Raimondo nato a Licata nel 1923, fucilato a Borzonasca il 21 maggio 1944
dalla Brigata Nera di Chiavari n.d.r.), venne processato e condannato
dal giudice Cugurra (a suo tempo, fascista e fruitore di raccomandazioni
da parte del Grazzini come testimone di purezza della sua fede) a 20 anni
di carcere scontati in parte nel penitenziario di S. Gimignano. Venne rilasciato
nel 1950 dopo un nuovo processo a Brescia che dimostrava la faziosa ingiustizia
del primo e la completa innocenza dei Grazzini.
Durante la sua detenzione nella questura di Genova,
venne sottoposto al taglio delle unghie degli alluci ed alla sollevazione
delle stesse con pinze, per cui non riuscì più a camminare
normalmente. Fu curato con quel che era possibile trovare nella prigione
dalla ausiliaria della R.S.I. Sig.ra Adriana Origone che in quei tragici
momenti, anche lei, fu torturata con la mutilazione di parte del seno e
continuamente oltraggiata.
Tali torture ebbero termine per l'intervento dei
Commissario di P.S. Angelo Costa - "Giulin " - che appurò,
con testimonianze inconfutabili, l'infondatezza delle accuse. La condanna
a 20 anni, venne erogata da parte dei giudice Cugurra con la motivazione
che, comunque, era fascista e quindi doveva pagare.
FRATRICIDIO! I Caduti della RSI nell'entroterra ligure. A cura
di Pietro Giulio Oddone e Carlo Viale. Editrice NovAntico, 1998.
(Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)
La colonia di Rovegno
I PRIGIONIERI DELLA COLONIA
da FRATRICIDIO! I Caduti della RSI nell'entroterra ligure. A
cura di Pietro Giulio Oddone e Carlo Viale. Editrice NovAntico, 1998.
Come abbiamo visto, nella Colonia montana di Rovegno
furono installati comandi di formazioni partigiane che trovarono nell'edificio,
dotato di refettori, dormitori, cucine, uffici, infermeria, una sede particolarmente
adatta.
Fu prigione di centinaia di militari italiani, tedeschi,
e kazaki, oltre a numerosi civili.
Testimonianze locali concordano nel ricordare, oltre
alle numerose fosse comuni, il rinvenimento di cadaveri isolati nei boschi
e nei pascoli. I religiosi dell'istituto Don Bosco, che nel dopoguerra
utilizzarono la Colonia di Rovegno, si distinsero nella pietosa opera di
recupero delle salme e della loro sepoltura in terra consacrata.
'E certo che i 123 prigionieri dello scontro di
Garbagna furono portati nella Colonia.
Nei giorni successivi allo scontro, i sopravvissuti,
caddero a decine fucilati dai partigiani.
I primi furono uccisi a Cabella Ligure il 19/3/1945.
Una quarantina vennero passati per le armi a Rovegno,
località Le Grotte, nei giorni 22 o 23 marzo 1945, secondo quanto
affermato da un "verbale di fucilazione" partigiano.
Come abbiamo avuto modo di documentare, altri 39
furono prelevati dal campo e tradotti a Cravasco (Campomorone) e qui falciati
a colpi di mitra il 4/4/1945
Il tenente colonnello Celeste Giannelli fu fucilato
a Rovegno il 29 aprile 1945.
Molta incertezza regna tra le varie fonti sui luoghi
di esecuzione dei militi caduti il 21 o il 22 marzo ed il 4 aprile 1945.
Possiamo affermare con certezza, poiché sepolti
almeno sino al 1961 nel locale cimitero, che sono caduti a Rovegno:
Amorelli (milite dei Comando Provinciale di Alessandria),
Arrighini,
Bruzzone, Caminada, Campora, Cipollini, Clementi,
Fossati, Gatti, Grazzini, Grosso, Goretti, lzzo, Lombardi, Magrassi, Morgavio,
Piccinini, Poggio, Rabbino, Stels, Tufariello, Vigni.
Molto probabilmente uccisi a Rovegno, poiché
risultano elencati nel suddetto "verbale di fucilazione": Bruson
Carca, Cavicchini, De Micheli, Fonte, Guerra, Mineo. Montagnini, Morelli,
Onnis, Piaggio, Rideila, Rossanigo, Trento e Zerbo.
Molte pubblicazioni danno poi per fucilati a Rovegno
due militi: Baiardi padre e figlio.
Il 21 o il 22 marzo caddero fucilati a Rovegno anche
il tenente Rubian Zorkol Kurten e l'interprete Biase Leo, i cui nomi risultano
nel già citato "verbale di fucilazione", firmato per il
comando della VIa zona operativa dal Commissario "Marzo", il
comunista Giovanni Canepa, già miliziano rosso nella guerra di Spagna.
Moltissimi sono i caduti di nazionalità tedesca
o kazaki di cui non conosciamo il nome, perché mai trascritto, anonimi
caduti, sepolti in anonime fosse, come risulta dai molti verbali di rinvenimento
stilati all'epoca delle esumazioni.
Ricordiamo che la 164a divisione turkmena era composta
da ex prigionieri sovietici di nazionalità kazaki, turco-mongolici.
La Divisione era comandata dal generale Oscar Von Niedermajer e successivamente
dal generale Raiph Von Heigendorf. Ufficiali e sottufficiali erano in parte
tedeschi ed in parte ex prigionieri. Era conosciuta come divisione "Turkestan"
ed i suoi soldati erano i "mongoli" che si comportarono spesso
barbaramente nei confronti delle popolazioni civili, suscitando le proteste
delle autorità repubblicane e talvolta l'energico intervento di
militari italiani.
La 164a divisione turkmena era giunta in Italia
nell'ottobre dei 1943.
FRATRICIDIO! I Caduti della RSI nell'entroterra ligure. A cura
di Pietro Giulio Oddone e Carlo Viale. Editrice NovAntico, 1998.
(Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)